domenica 4 dicembre 2016

il mendicante d'amore

"Io sono l'infinito amore e l'infinito desiderio di essere amato".
Sono parole rivelate ad una mistica contemporanea da Gesù, che aggiunge: "Io ho bisogno del vostro amore; sono il Mendicante d'amore".
Ho riflettuto molto in questi giorni su queste parole e mi sono chiesto perché il Signore, che è perfetto e onnipotente per intima natura, ha così bisogno del nostro amore. 
L'unica spiegazione che ho trovato sta in quella meravigliosa espressione di Paul Claudel, citata in un post di qualche mese fa; quando il poeta francese si converte improvvisamente entrando per caso in una chiesa e vede...
In seguito dirà che ha visto "l'eterna infanzia di Dio".
L'eterna infanzia di Dio
L'eterna infanzia di Dio
L'eterna infanzia di Dio
Sono sorprendenti queste parole; non riesco più a dimenticarle.
Dio è un bambino.
E' l'eterno Fanciullo.
In effetti, guardando un fanciullo di pochi mesi ci accorgiamo che ha un viscerale bisogno d'amore; si nutre d'amore più che di latte materno.
Appena la mamma lo lascia un attimo comincia a piangere disperato. Ha bisogno di essere cullato, abbracciato, coccolato.
Ecco: Dio è un po' così: ha l'innocenza di un bambino; la purezza di un bambino; la meraviglia di un bambino; è persino geloso come un bambino.
E vuole essere abbracciato, cullato, baciato, come un fanciullo.
Quando vedremo allora ancora una volta il Bambino nascere nella mangiatoia di uno sperduto villaggio della Palestina, ricordiamoci che questa immagine ci dice molto dell'intima natura di Dio.

venerdì 18 novembre 2016

La necessità di essere salvati

Abbiamo bisogno di aiuto.
Da soli non possiamo farcela.
Una delle tentazioni più pericolose nella vita è quella di convincerci che non abbiamo bisogno di nessuno.
Ho incontrato moltissima gente che si illude di essere autosufficiente, di poter realizzarsi benissimo senza chiedere aiuto al prossimo.
Ma la verità è che nessuno può bastare a se stesso, per quanto questa realtà mortifichi il nostro amor proprio.
Abbiamo bisogno di essere salvati.
Gesù stesso ci mette in guardia contro il demonio muto, che nasce dalla tentazione di chiuderci in noi stessi e smettere di parlare con gli altri. 
Quando il demonio muto entra in un anima manda tutto in rovina.
Perchè l'orgoglio e la superbia sono i nemici più duri da combattere.
Corrompono anche la nostra capacità di amare ed essere amati, fino al punto da non accettare più l'amore gratuito, perchè anche l'amore vogliamo guadagnarcelo meritandolo.
Ci costa moltissimo allora accettare che qualcuno ci ami indipendentemente da ogni nostro merito.
Se una persona sconosciuta mi fermasse per strada per dirmi che mi vuole bene io le chiederei subito perchè!!!
Ma dovrebbe essere normale il contrario: chiedersi il perchè solo dell'odio.

 

giovedì 20 ottobre 2016

Sognatori

in certi momenti della vita non si trovano le parole.
Solo il silenzio può aiutare a guarire.


martedì 4 ottobre 2016

elogio della mediocrità

Non sono mai stato il primo della classe.
Non mi sono mai sentito particolarmente intelligente o geniale.
Sono sempre stato una persona mediocre.
Eppure non mi sono mai sentito particolarmente infelice per questo.
Certo ho sempre dovuto sudare per raggiungere gli obiettivi che mi ero prefisso: niente per me è mai stato facile; ho sempre dovuto convivere con la sgradevole sensazione di non essere mai all'altezza, di essere sempre inadeguato, di dover sempre lottare per raggiungere anche un livello normale di relazione con gli altri.
Ho cercato sempre di stare bene con tutti però; di frequentare persone di ogni ceto sociale o livello intellettuale e questo mi ha consentito di sviluppare un certo grado di intelligenza emotiva, che è l'unico tesoro che posseggo.
Non ho mai cercato di essere il migliore; il più bravo; il più istruito: mi sentivo già felice di essere condiderato una persona normale.
Per questo sono convinto che la normalità vada rivalutata: questo mondo ha un disperato bisogno di persone normali, gente che non ti fa sentire in imbarazzo se non hai niente di speciale.
La maggior parte delle persone troppo intelligenti o geniali, invece, non si trova bene con nessuno, chiunque li annoia perchè non stimola in loro nessun interesse.
Anche loro devono convivere con la sensazione (sgradevole anch'essa) che i loro interlocutori non abbiano mai pienamente compreso quello che stanno dicendo.
Spesso pensano che anche le frasi più semplici ed inoffensive loro rivolte abbiano chissà quale significato recondito o allusione sottintesa:
fanno una fatica inaudita a mettersi nei panni degli altri, perchè in definitiva avvertono che c'è una distanza infinita tra loro e le persone normali.
Grazie a Dio io sono mediocre, invece.
Devo ascoltare sempre due volta le battute per capirne il senso.
Spesso non capisco i discorsi troppo articolati delle persone intellligenti; non ho mai imparato a giocare a scacchi e sono una frana nei test di logica.
Tra le poche cose che ho imparato dalla vita c'è quella di stare al mio posto, ringraziando Dio di esserci arrivato.

mercoledì 7 settembre 2016

il bambino che si ciba di bellezza

Quest’anno ho deciso di ritornare, seppur per due giorni, nella mia città natale per rivedere le meraviglie del museo di Capodimonte.
Questo luogo, diretto oggi da Sylvain Bellenger, costituisce con il suo fantastico parco (che nulla invidia a quello di Versailles) uno dei tanti motivi di orgoglio della città partenopea.
Napoli: una delle grandi capitali europee, che poteva dialogare alla pari con Vienna, Parigi, Londra, Madrid, con una scuola musicale superba, il cui giudizio lo stesso Mozart temeva.
Il museo di Capodimonte, insieme a tante altre istituzioni culturali uniche al mondo, meriterebbe un’attenzione ancora più viva non solo per lo splendore dell’edificio e del suo parco ma, soprattutto, per la ricchezza immensa dei suoi tesori, provenienti inizialmente dalla collezione Farnese, poi donati dai Borboni, dalla città di Napoli e dall’Italia post unitaria.
Innumerevoli stanze stupende si susseguono in corridoi lunghissimi, contenenti capolavori di epoche diverse e di artisti sommi, a cominciare da Tiziano, i cui numerosi quadri accolgono, quasi all’inizio del cammino, lo spettatore incredulo.
Durante la mia visita, in una domenica a ingresso libero e affollatissima, due episodi mi hanno fortemente impressionato.
Nel salone delle danze, dove giacciono un paio di pianoforti, un bambino ha toccato la tastiera di uno degli strumenti, creando suoni, che hanno attirato la preoccupata attenzione di un custode.
Costui, accorso velocemente, ha impedito l’ulteriore uso dello strumento, sottolineando che non era permesso neppure toccarlo. Trovandomi anch’io vicino al bambino, sono stato avvertito dal suddetto custode di non osare mettere le mani sulla tastiera.
Il direttore Bellenger, presente all’avvenimento, ha lodato giustamente il comportamento del custode, che, ligio al dovere, non aveva fatto eccezione alcuna, neanche per un musicista di casa abbastanza conosciuto.
Poi le cose hanno preso una via più «napoletana» e simpaticamente conciliante ed io, a richiesta del pubblico, che nel frattempo si era fatto intorno, dopo aver chiesto al custode il permesso di potermi «esibire», ho suonato parte di un valzer di Chopin, ricevendo il plauso degli astanti e dello stesso censore.
Il secondo episodio è più sottile e toccante. Dopo aver percorso moltissime sale, ammirando Raffaello, Masaccio, Caravaggio, Bruegel, Giovanni Bellini, Lorenzo Lotto, Luca Giordano, Mantegna e tanti altri, un bambino, con gli occhi pieni di tanta Bellezza e un po’ stordito da tanta sublime Arte si è avvicinato a Bellenger e ha chiesto con innocente semplicità: «Scusi, mi dice qual è la cosa più importante in questo museo?».
Il direttore ha risposto: «La tua presenza, quindi, tu!».
Una risposta meravigliosa, perché vera.
Il bambino, che si ciba di Bellezza, di quella Bellezza, che la Natura ha donato all’Italia e agli Artisti che hanno reso il nostro Paese ancora più grande e unico al mondo. Il bambino, quindi, simbolo di una società migliore.
Nel lasciare Capodimonte e il suo paradiso terrestre, mi è venuta in mente l’iscrizione incisa sulla tomba di Raffaello nel Pantheon e ideata da Pietro Bembo: «Ille hic est Raphael, timuit, quo sospite vinci, rerum magna parens et moriente mori» (Qui giace quel grande Raffaello. La Natura, la grande genitrice di tutte le cose, temette di essere vinta da Lui vivente e di morire con Lui morente).
La Natura che teme la supremazia dell’Arte! Con il pensiero del detto antico che ciò che è Bello è anche Buono e Giusto ho lasciato questo luogo di delizie, portandomi dentro il fascino del suo incanto e con la promessa di ritornarvi al più presto. 

Riccardo Muti   (corriere della sera)

sabato 13 agosto 2016

le braci

Alle domande più importanti si finisce sempre per rispondere con l'intera esistenza.
Non ha importanza quello che si dice nel frattempo, in quali termini e con quali argomenti ci si difende.
Alla fine, alla fine di tutto, è con i fatti della propria vita che si risponde agli interrogativi che il mondo ci rivolge con tanta insistenza:
chi sei? Cosa volevi veramente? A chi e a che cosa sei stato fedele? Sono queste le domande capitali. E ciascuno risponde come può, in modo sincero o mentendo; ma questo non ha molta importanza. Ciò che importa è che alla fine ciascuno risponde con tutta la propria vita.
Può darsi che la solitudine distrugga l'uomo, ma questo fallimento, questa frattura, sono comunque più degni di un uomo di pensiero di quanto non lo sia la sua connivenza con un mondo che prima lo contagia con le sue seduzioni dolci e perverse e poi lo scaraventa nella fossa.
Tu precipita più in basso, nella voragine della solitudine.
Perirai ugualmente, ma con la tua caduta avrai sostenuto il destino che governa la tua anima e la tua opera.
Rimani solo e ricorda. Rimani solo e osserva. Rimani solo e rispondi.
Non illuderti: non esistono soluzioni diverse. Rimani solo, anche a costo della vita.

 Sàndor Màrai

martedì 12 luglio 2016

luminoso esempio di solidarietà

L'immagine di questo bambino portoghese che consola il tifoso francese in lacrime credo sia la scena più bella degli europei di calcio appena conclusi.
E' una spendida manifestazione di solidarietà che proviene proprio da un bambino, e sorprende molto proprio perchè di solito accade il contrario: sono i bambini che spesso non riescono a relativizzare gli eventi emotivi e debbono sono consolati dagli adulti; qui accade il contrario, grazie alla maturità di questo ragazzino, e l'effetto è perciò ancor più emozionante e commuovente, perchè l'adulto quasi non crede ai suoi occhi, ma poi si abbandona alla solidarietà e abbraccia il suo consolatore, andandosene via realmente rinfrancato dal gesto di tenerezza inaspettata. 


martedì 21 giugno 2016

Tappeto di note

Ieri sera mi sono addormentato sopra un tappeto di note.
Si da il caso che dalla finestra della mia stanza si sentano distintamente i concerti inaugurati proprio ieri nell'ambito della rassegna Verona Jazz al teatro romano.
Il concerto di ieri sera, però, era un po' speciale. 
C'era una sola persona sul palco, con una tromba in mano.
Difficile definire anche il genere di musica che faceva.
Qualcuno ha detto a suo riguardo che "volerlo definire, inscatolare in una categoria è la cosa più difficile. Che in partenza sia un trombettista jazz è l’unica sicurezza. Ma da anni la sua attività ha un raggio d’azione talmente ampio che è persino complicato tenergli dietro".
In effetti, le note che uscivano dalla sua tromba sembravano sospese nell'aria: fluttuavano quasi danzando nel cielo chiaro della notte di luna piena, a poche ore dal compimento dell'atteso solstizio d'estate.
Io ero a letto e sono stato circondato, avvolto, permeato da questo tappeto sonoro che sembrava provenire da un altro mondo.
E su questo tappeto mi sono addormentato, quasi mio malgrado, cullato dalle melodie del folletto trombettista. 
Stamane, poi, ho scoperto che il folletto risponde al nome di Paolo Fresu, mai ascoltato in vita mia, ma sono sicuro che mi farà compagnia ancora a lungo quella sensazione di leggerezza che ho provato ieri sera prima di addormentarmi, mentre partivo per il viaggio misterioso che ogni notte mi trasporta verso i meandri più reconditi del mio inconscio più sconosciuto.



martedì 7 giugno 2016

Ricevere amore e perdono senza averli meritati

Si fa un gran parlare di misericordia quest'anno e nessuno si è preoccupato ancora di spiegare che cos'è veramente la misericordia.
La storia che segue credo sia la più adatta a rendere l'idea ed è stata raccontata da una suora americana che l'aveva ascoltata dalla bocca di una consorella polacca presente ai fatti narrati.
Nel lager di Auschwitz in Polonia morirono circa tre milioni di persone, un sesto degli ebrei uccisi durante l’Olocausto, insieme a diversi cristiani e santi come san Massimiliano Kolbe e santa Benedetta dalla Croce (Edith Stein).
Rudolf Höss, soprannominato “l'animale” dai sopravvissuti allo sterminio, nei tre anni di mandato come comandante diresse l’esecuzione di oltre 2 milioni e mezzo di detenuti e assistette alla morte per fame o malattia di un altro mezzo milione.
Finito il suo mandato, supervisionò anche l’esecuzione di 400 mila ebrei ungheresi.
Höss compì un solo atto di umanità.
Un giorno portarono ad Auschwitz «un’intera comunità di gesuiti» tranne il superiore, che quel giorno si trovava lontano dal convento, e questo, il giorno dopo, disperato, volle raggiungere i suoi confratelli intrufolandosi nel campo di concentramento.
Le guardie lo scoprirono e lo portarono da Höss, certi che il comandante avrebbe ordinato la sua esecuzione.
Invece Hoss fece una cosa che non aveva mai fatto: liberò il sacerdote, lasciando le guardie sconcertate.

Quando la guerra finì Höss fu arrestato e condannato a morte per crimini contro l’umanità. Ma l’ex comandante non era terrorizzato tanto dalla morte quanto dalla detenzione, convinto che le guardie polacche si sarebbero vendicate «torturandolo per tutto il tempo della prigionia e provocandogli una pena inimmaginabile».
La sua sorpresa fu quindi enorme quando vide che "uomini le cui mogli, figlie e figli, erano stati uccisi ad Aushwitz, lo trattavano invece con dignità".
Non riusciva a farsene una ragione.
Secondo le suore fu quello il momento della conversione: quello della misericordia, che è «l’amore che non meritiamo».
Sì, «non meritava il loro perdono, bontà, gentilezza. Eppure li ricevette tutti».

Höss, cresciuto in quella fede cattolica che poi abbandonò in gioventù, chiese di potersi confessare.
Le guardie provarono a cercare un sacerdote disponibile, ma «le ferite ancora molto vive» non resero facile trovare chi «volesse ascoltare la sua confessione».
E infatti «non trovarono nessuno».
L’ex comandante si ricordò improvvisamente di quel gesuita, padre Wladyslaw Lohn, che aveva risparmiato anni prima.
Supplicò le guardie di cercarlo.
Il gesuita, rintracciato proprio nel santuario della Divina misericordia di Cracovia, dove era diventato cappellano delle suore della Beata Vergine Maria della Misericordia, accettò di confessare Höss.

La confessione «durò molto a lungo, finché non gli diede l’assoluzione: “Ti sono perdonati i tuoi peccati. Rudolf Hoss Vai in pace».
Il giorno successivo, prima dell’esecuzione, il gesuita tornò per dare la Comunione al condannato.
La guardia che era presente confessò poi che quello fu uno dei momenti più belli della sua vita: «Vedere quell’animale in ginocchio, con le lacrime agli occhi, come un bambino che sta per ricevere la Prima Comunione, Gesù, con il cuore».

martedì 24 maggio 2016

l'eterna infanzia di Dio

Io ero in piedi tra la folla, vicino al secondo pilastro rispetto all’ingresso del Coro.
In quel momento capitò l’evento che domina tutta la mia vita.
In un istante il mio cuore fu toccato e credetti.
Credetti con una forza di adesione così grande, con un tale innalzamento di tutto il mio essere, con una convinzione così potente, in una certezza che non lasciava posto a nessuna specie di dubbio che, dopo di allora, nessun ragionamento, nessuna circostanza della mia vita agitata hanno potuto scuotere la mia fede né toccarla.
Improvvisamente ebbi il sentimento lacerante dell’innocenza, dell’eterna infanzia di Dio: una rivelazione ineffabile!
Cercando – come ho spesso fatto – di ricostruire i momenti che seguirono quell’istante straordinario, ritrovo gli elementi seguenti che, tuttavia, formavano un solo lampo, un’arma sola di cui si serviva la Provvidenza divina per giungere finalmente ad aprire il cuore di un povero figlio disperato: “Come sono felici le persone che credono!”.
Ma era vero? Era proprio vero!
Dio esiste, è qui.
È qualcuno, un essere personale come me.
Mi ama, mi chiama. 
                                                 Paul Claudel

Un giorno qualcuno mi disse che non riusciva a farsi un'idea di Dio, allora risposi di guardare il suo bambino, perché molto probabilmente Dio gli assomigliava molto.

lunedì 2 maggio 2016

una somma di piccole cose

Finalmente è uscito!!!
Cosa???
Ma il nuovo album del mio cantautore preferito!!!
Chi???
Ma Niccolò Fabi, è evidente!!!
Suonato integralmente da solo, Una somma di piccole cose  riassume in maniera precisa le caratteristiche di un percorso umano e musicale sempre personale e anticonvenzionale.
Un disco importante in cui il cantautore romano si mette nuovamente in gioco evidenziando la continua ricerca e il desiderio di arrivare all’essenza delle cose.
E allora godetevi il brano capolavoro del disco:



mercoledì 13 aprile 2016

la bellezza e il fango

Io vedo chiaramente che c’è in me una inclinazione al male con la quale non posso smettere di combattere.
La teoria la so tutta, so quello che devo fare, come e perché, lo so talmente bene che vado in giro a spiegarlo agli altri. Eppure non lo faccio.
Non quanto vorrei, potrei, dovrei.
So anche che c’è un vuoto, un bisogno, una nostalgia che non riesce a farsi consolare facilmente: anche la ricerca di intimità con il Signore mi rimanda a una disciplina, a una sorta di combattimento spirituale da fare tenendo la trincea, minuto per minuto.
Vedo anche che c’è un nemico che attivamente interviene nella mia vita, che mi insidia e mi tenta. Capisco chiaramente quanto sono incapace di amare mio marito come lui desidera essere amato (lo amo a modo mio, ma non basta), addirittura so che non sono brava ad amare i miei figli – che pure sono l’affetto più istintivo e viscerale che ho – come vorrei, come hanno diritto. Non parliamo poi dei miei genitori, dei fratelli, degli amici: è un amore povero, incostante, egoista il mio, così sproporzionatamente più piccolo di come lo vorrei.
Lo vedo, lo sperimento ogni giorno che senza lo Spirito Santo nulla è in me “nulla senza colpa”, neppure le “buone” azioni, perché come dice il Vangelo solo Dio è buono.
Riscopro ogni giorno l’intuizione che la vita secondo il battesimo è un’altra vita, che solo riesco a desiderare ma mai a compiere.
Vedo lo iato tra la bellezza possibile e quella che vivo, una sua ombra “confusa come in uno specchio”, direbbe san Paolo. Vedo, soprattutto, tanta bruttezza in me.
Ma proprio tanta. E non ho neppure la consolazione di San Francesco, o di san Giovanni Maria Vianney, a cui la grazia di vedere la propria bruttezza era concessa proprio da Dio (si dice che al santo Curato d’Ars fu concesso di vedere la sua anima nella verità, in una visione, e quasi svenne per quanto era piena di peccato). Ecco, loro vedevano perché erano ai vertici della santità, io sono mediocre anche nel vedere la mia bruttezza: cioè la vedo ma alla fine non è che mi dia tanta pena, mi ci accomodo abbastanza confortevolmente, e mi do da fare per migliorarla solo finché non fa troppo male…
Ecco perché c’è qualcosa che non mi convince nell’ansia che percepisco, tra diversi uomini di fede, di comunicare la buona notizia, il Vangelo, raccontandone solo la bellezza, tacendo della drammaticità della lotta, omettendo tutto ciò che possa anche lontanamente ricordare la croce, il dolore, la bruttezza, la fatica.
Non ho gli strumenti necessari a dare un nome a questa cosa: non so se si tratti di una corrente teologica, di una scelta pastorale, oppure di una strategia solo comunicativa (a chi è lontano tu cerchi prima di parlare della bellezza, poi casomai della fatica che tocca fare per vestirsene stabilmente). Non posso neppure dire che si tratti di un errore, perché se guardo ai sacerdoti che compiono queste scelte penso sempre che hanno una sapienza e una conoscenza di molto superiori alla mia, che ho solo, come dicevo, il mio sensus fidei.
Sono certa che chi sceglie di mettersi di fronte al mondo usando uno stile che definirei eufemistico, lo faccia perché vuole stare in una posizione amica, vuole conquistare non per piacere ma per entrare nei cuori e, da dentro, condurli a Cristo.
Mi chiedo solo questo: funziona? Serve dire della bellezza a persone che non la sperimentano?
E soprattutto, se c’è del bene in tutto, nel mondo, nei nostri cuori, in tutte le nostre vicende, a cosa serve il battesimo? Io posso dire che se qualcuno venisse a dirmi solo quanto è bella la vita e quanto è facile salvarsi io penserei che allora forse sono sbagliata io, perché questa bellezza non mi balza agli occhi con tanta evidenza, e devo scavare nel fango come Bernadette alla ricerca dell’acqua.
Posso dire che a tante delle donne che incontro, che mi raccontano fatica e dolore e dubbio e scoramento e difficoltà e tradimenti grandi e piccoli, io cerco di dire non che amare è bello e facile, ma che è l’acqua che si trova scavando, se si vuole amare veramente, ma veramente, tutti quelli che ci sono dati.
Io capisco l’ansia di tanti di superare le ostilità col mondo, di far cadere le inimicizie, di aprire e dialogare e fare ponti, ma il problema è che il nemico ce l’ho io, dentro di me, e la vita che mi è data, con la sua croce che ogni giorno viene fornita col pacchetto base, è esattamente l’unica occasione che ho di entrare in un’altra qualità di vita, in un altro livello di amore, quello secondo Cristo, che a volte è persino contro il nostro sentimento.
È per questo che sto imparando sempre di più a diffidare di me stessa, e vorrei tanto una buona volta entrare in un cammino di fede e obbedienza, dove cominciare (sarà ora, forse, alle soglie della terza età) ad ascoltare un’altra voce che non sia la mia, della quale diffido sempre di più man mano che la conosco.
Questo è quello che vivo, questo è quello che so. E posso dire, semplicemente, che a me chi parla solo di bellezza senza parlare di fango non è molto utile.

Costanza Miriano (costanzamiriano.com)

martedì 12 aprile 2016

apologia del semaforo rosso

Ieri mattina sono uscito di buon’ora per un appuntamento.
Ero in ritardo, avevo fretta e il solito semaforo vicino casa era rosso.
Conosco bene quel semaforo, ci passo sempre: è inutile, perché all’incrocio c’è perfetta visibilità di tutte le strade e non c’è grande traffico.
Così, come altre volte al mattino del sabato quando non c’è movimento, guardo bene da tutte le parti, mi sporgo lentamente nell’incrocio superando la striscia dello stop e osservando bene che nessuno arrivi, poi passo velocemente.
Purtroppo ieri mattina cento metri dopo il semaforo c’era nascosta una pattuglia della polizia. Paletta rossa, richiesta di patente e libretto e, nel giro di pochi secondi, multa e decurtazione di punti.
Allora provo a far ragionare il poliziotto che ho di fronte:
è vero, dico, sono passato con il rosso, è un’infrazione grave; ma conosco bene quel semaforo, ho guardato attentamente prima di attraversare, e poi sono stato spinto anche dalla fretta perché quell’appuntamento per me è fondamentale e non posso arrivare tardi. «Ma lei ha infranto una legge, sapendo di farlo e volendo farlo - mi risponde il poliziotto – le sue motivazioni non interessano: questo è il fatto oggettivo e a questo stiamo».
«È vero, ma lei non mi può giudicare allo stesso modo di un altro che arriva a 100 all’ora senza neanche fermarsi», replico io. Stessi soldi da pagare e stessi punti decurtati, non è giusto, i casi sono ben diversi. Il poliziotto mi guarda attento, penso di averlo inchiodato con la mia logica. Ci pensa un po’, poi mi risponde: «Caro signore, io la sto multando non perché giudico le sue intenzioni o il modo in cui ha attraversato l’incrocio, ma semplicemente perché l’ha fatto. Vede, sono sulla strada da molti anni e so benissimo che i motivi per cui si commettono queste infrazioni sono innumerevoli e ci sono tante attenuanti o aggravanti, ma immagini cosa accadrebbe se accettassimo che in alcuni casi si può passare con il rosso (e chi li decide poi?): sarebbe il caos, diventerebbe impossibile far svolgere ordinatamente il traffico e sarebbe un incentivo per chi vuole trasgredire mettendo a repentaglio la sicurezza di tutti».
A questo punto sono io che accuso il colpo, ma all’improvviso l’illuminazione. Fortunatamente arrivo da due giorni in cui ho letto l'esortazione apostolica Amoris Laetitia, e soprattutto i commenti di noti teologi, li ho tutti con me. Li prendo e spiego al poliziotto: «Vede, la sua teoria è astratta e ideologica perché considera solo la norma oggettiva – che non discuto – ma non tiene conto delle singole persone che passano con il rosso: delle preoccupazioni e delle ansie che li spingono a commettere l’infrazione, della prudenza con cui lo fanno cercando di non recare danno ad alcuno, del fatto che date le condizioni in cui sono questo è il massimo che possono fare anche se l’ideale sarebbe aspettare che scatti il verde».
Lo vedo barcollare un po’, allora affondo il colpo: «Un conto è riconoscere che c’è stata una infrazione oggettiva, un altro è la mia imputabilità personale. Ad essere sinceri, credo che lei non solo non mi dovrebbe sanzionare, ma dovrebbe apprezzare il modo con cui sono passato con il rosso. E la legge che obbliga di aspettare il verde non verrebbe messa in discussione da questo. Guardi qui», e gli porgo i ritagli di giornale che ho con me. «Non lo dico mica io, ci sono fior di esperti: padre Spadaro sulla Civiltà Cattolica, il priore di Bose Enzo Bianchi, Famiglia Cristiana, Avvenire…. Lo dicono loro, ma è ovvio: non migliorerà certo il traffico continuando a multare tutti quelli che passano con il rosso…». 
Penso di averlo messo alle corde, ma forse ho interpretato male le sue espressioni. Risultato: multa, punti decurtati, e anche una denuncia per oltraggio a pubblico ufficiale.
Non riesco a capire il perché ma si era assolutamente convinto che volessi prenderlo per i fondelli.

Riccardo Cascioli su "La bussola quotidiana".

venerdì 1 aprile 2016

ALTROVE

Ecco una parola che non si sente pronunciare quasi più.
Forse perché un luogo che deve rimanere irraggiungibile per continuare ad essere pensato, sognato, immaginato, non appaga più in un mondo in cui i desideri devono essere esauditi, le mete raggiunte e i sogni realizzati subito o al più presto.
Si può però portare l'altrove con sé, luogo interno, stato d'animo, come un vento che di colpo trascina lontano, e allora lo si scopre tra le strade della propria città, in un paesaggio noto che all'improvviso si accende per una voce, un odore, una luce.
Il vero mezzo di trasporto è l'immaginazione, senza la quale non c'è distanza capace di trasformarsi in qualcosa che resti dentro di noi: i viaggi funzionano solo se la scintilla è già scoccata, qualcosa da cercare, qualcuno da incontrare, un'idea, un'ipotesi covata a lungo o solo intuita da verificare sul campo, non importa se si troverà tutt'altro.
La felice scoperta per caso, è il vero obiettivo di ogni ricerca.                    
Maria Pace Lucioli Ottieri (per la rivista Touring).

Queste belle riflessioni, attinte da una rivista di viaggi, mi hanno fatto riflettere su quello che è forse il problema principale dell'essere umano: pensare la felicità come un luogo collocato sempre altrove da dove siamo, immaginarla sempre come qualcosa d'altro da ciò che possediamo, identificarla sempre con una persona diversa da quella che ci sta accanto.
E non ci rendiamo conto che tale atteggiamento sta all'origine di ogni alienazione.
E' proprio quello che succede al figliuol prodigo della parabola evangelica: c'è un giovane che vive con un padre buono in una casa in cui non gli manca niente, e tuttavia sogna una felicità altrove.
Una volta abbandonata la casa, però, scopre che da solo non riesce a trovare pace in nessun luogo e si scopre a mangiare il cibo dei porci.
A questo punto la parabola dice che il giovane "rientrò in sé stesso" e si ricordò di suo padre, riconoscendo il valore di tutto ciò che aveva perduto.
Questa storia è il paradigma della condizione dell'uomo sulla terra: non riuscire a riconoscere i doni che possiede e cercare la propria realizzazione sempre altrove, salvo poi scoprire quanto importanti erano quei doni adesso che li ha rifiutati e perduti.

martedì 29 marzo 2016

il sepolcro vuoto

La scrittura propone per la giornata del martedì di Pasqua uno dei brani più belli di tutto il vangelo:
"In quel tempo, Maria stava all’esterno, vicino al sepolcro, e piangeva.
Mentre piangeva, si chinò verso il sepolcro e vide due angeli in bianche vesti, seduti l’uno dalla parte del capo e l’altro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù.
Ed essi le dissero: «donna, perché piangi?». Rispose loro: «hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto».
Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù, in piedi; ma non sapeva che fosse Gesù.
Le disse Gesù: «donna, perché piangi? Chi cerchi?».
Ella, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: «Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove l’hai posto e io andrò a prenderlo».
Gesù le disse: «Maria!». Ella si voltò e gli disse in ebraico: «Rabbunì!» - che significa: «Maestro!». Gesù le disse: «Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli e di’ loro: “Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”».
Maria di Màgdala andò ad annunciare ai discepoli: «Ho visto il Signore!» e ciò che le aveva detto."

Questa tenerissima immagine della Maddalena che piange accanto al sepolcro vuoto è l'immagine di ogni uomo che vaga per il mondo piangendo, alla ricerca di un corpo morto.
Rappresenta tutta l'umanità che si affanna perché non trova il vero bene, senza accorgersi che ce l'ha sempre avuto accanto e non lo ha mai riconosciuto.
Le cose più difficili da vedere sono quelle che abbiamo più vicino.
Allo stesso tempo, però, questo brano ci dice anche che se il pianto è sincero, al punto da commuovere persino il cuore di Dio, alla fine l'Amore si trova; anzi, sarà lui stesso a farsi riconoscere.
Non bisogna smettere di cercarlo, però, come la Maddalena che, piangendo, comincia a supplicare chiunque possa aiutarla a trovare l'Amore della sua vita.
E alla fine lo trova.



domenica 20 marzo 2016

Piccole cose

Aveva imparato a chiudere le porte.
Aveva imparato ad aprirle piano e a chiuderle con accurata precisione.
E quando una impara a chiudere le porte in qualche modo impara anche ad aprire e chiudere nel modo giusto tutto il resto.
Il tempo sembrava allungarsi indefinitamente, quando si facevano le cose nel modo giusto.
Si congelava, si fermava, si arrestava bruscamente come un orologio che rimane senza carica.
E allora le cose piccole, le cose necessarie, anche le quotidiane, specialmente quelle manuali - come sembra misterioso che l'uomo possa fare cose belle con le mani - si trasformavano alla fine della giornata in semplici opere d'arte.

Natalia Sanmartin Fenollera: "Il risveglio della signorina Prim".

Un romanzo d'altri tempi...


domenica 21 febbraio 2016

Ascoltare il silenzio

Avete mai provato ad ascoltare attentamente il silenzio.
Magari sulla vetta di una montagna o sul crinale di una collina.
Provate a sedervi e ascoltate.
C'è qualcosa di divino nel silenzio.
Nobiltà e ricchezza; c'è onestà e sincerità nel silenzio.
Non ti inganna il silenzio con parole equivoche, doppi sensi o parafrasi ambigue.
Non si può fingere al suo cospetto, poiché il suo seme produce soltanto germogli di verità.
Le sue parole mai sussurrate arrivano direttamente al centro dell'anima.
E se ogni tanto un cinguettio pare interrompere quest'incanto, ecco che invece il suo linguaggio ne guadagna in semplicità.
C'è qualcosa di prezioso nel silenzio.
Quando il clamore del mondo appassisce, e nessun rumore scomposto assorda il tuo cuore, ecco che tutto ti appare più autentico, quasi che l'intero universo ritornasse a risplendere della sua originaria bellezza.


sabato 16 gennaio 2016

l'anima vola

C'è un oceano di motivi per essere felici, canta Elisa nella canzone "e scopro cos'è la felicità", contenuta nel suo ultimo disco "l'anima vola".
Sarà forse una coincidenza ma, avendo ascoltato molto questo disco negli ultimi tempi, per il nuovo anno ho fatto anch'io il proposito di essere felice.
Molta gente è convinta, infatti, che la felicità non esista o, nella migliore delle ipotesi, se esiste dipende dal caso.
Accade di essere o di sentirsi felici e basta; non ci si può fare niente.
C'è chi nasce con le orecchie a sventola o con gli occhi azzurri e chi è predisposto alla felicità.
Niente di più sbagliato.
"La felicità del Cielo è per coloro che sanno essere felici sulla terra", ha scritto un grande santo (Josemaria Escrivà, Forgia, cap. 13, n. 1005).
Ed è proprio così.
Siamo artefici del nostro destino.
L'agire modifica l'essere.
Ogni volta che compiamo un atto di virtù diventiamo più buoni e anche più felici;
viceversa, ogni volta che compiamo un atto di egoismo diventiamo più cattivi ed anche più tristi.
Sono parole che avete già sentito, perché questo è uno dei miei temi ricorrenti.
Ogni volta che compiamo un atto di generosità diventiamo più generosi ed anche più felici.
Ogni volta che sorridiamo a qualcuno diventiamo più disponibili ed anche più felici.
Ogni volta che alleviamo il dolore altrui diventiamo più compazienti ed anche più felici.
L'uomo è sempre libero di scegliere cosa vuole diventare, anche nelle situazioni più difficili, quando sembra che nessuna libertà gli sia concessa dal destino avverso.
Nei momenti più drammatici della propria esistenza l'essere umano è capace di decidere se aprire ancora una volta il proprio cuore o chiuderlo per sempre. 
E anche questa volta gennaio è sconfitto.


martedì 5 gennaio 2016

Re(almente) grandi

Quei Savi d'oriente non avevano nulla che li assicurasse della verità.
Nulla di soprannaturale.
Solo il calcolo astronomico e la loro riflessione che una vita integra faceva perfetta.
Eppure hanno avuto fede.
Fede in tutto: fede nella scienza, fede nella coscienza, fede nella bontà divina. 
Per la scienza hanno creduto al segno della stella nuova, che non poteva che esser "quella", attesa da secoli dall'umanità: il Messia.
Per la coscienza hanno avuto fede nella voce della stessa che, ricevendo " voci " celesti, diceva loro: "È quella stella che segna l'avvento del Messia".
Per la bontà hanno avuto fede che Dio non li avrebbe ingannati e, poiché la loro intenzione era retta, li avrebbe aiutati in ogni modo per giungere allo scopo.
E sono riusciti.
Essi soli, fra tanti studiosi dei segni, hanno compreso quel segno, perché essi soli avevano nell'anima l'ansia di conoscere le parole di Dio con un fine retto, che aveva a principale pensiero quello di dare subito a Dio lode ed onore.
Non cercavano un utile proprio.
Anzi vanno incontro a fatiche e spese, e nulla chiedono di compenso che sia umano. Chiedono soltanto che Dio di loro si ricordi e li salvi per l'eternità. 
Come non hanno nessun pensiero di futuro compenso umano, così non hanno, quando decidono il viaggio, nessuna umana preoccupazione.
"Come farò a fare tanto viaggio in paesi e fra popoli di lingua diversa?
Mi crederanno o mi imprigioneranno come spia? Che aiuto mi daranno nel passare deserti e fiumi e monti? E il caldo? E il vento degli altipiani? E le febbri stagnanti lungo le zone paludose? E le fiumane gonfiate dalle piogge? E il cibo diverso? E il diverso linguaggio? E... e... e ".
Essi non ragionano così. Dicono con sincera e santa audacia: "Tu, o Dio, ci leggi nel cuore e vedi che fine perseguiamo.
Nelle tue mani ci affidiamo.
Concedici la gioia sovrumana di adorare la tua Seconda Persona fatta Carne per la salute del mondo".
Basta.
E si mettono in cammino dalle Indie lontane. Dalle catene mongoliche sulle quali spaziano unicamente le aquile e gli avvoltoi e Dio parla col rombo dei venti e dei torrenti e scrive parole di mistero sulle pagine sterminate dei nevai. Dalle terre in cui nasce il Nilo e procede, vena verde azzurra, incontro all'azzurro cuore del Mediterraneo, né picchi, né selve, né arene, oceani asciutti e più pericolosi di quelli marini, fermano il loro andare. E la stella brilla sulle loro notti, negando loro di dormire.
Quando si cerca Dio, le abitudini animali devono cedere alle impazienze e alle necessità sopraumane.
La stella li prende da settentrione, da oriente e da meridione, e per un miracolo di Dio procede per tutti e tre verso un punto, come, per un altro miracolo, li riunisce dopo tante miglia in quel punto, e per un altro dà loro, anticipando la sapienza pentecostale, il dono di intendersi e di farsi intendere così come è nel Paradiso, dove si parla un'unica lingua, quella di Dio.
Un unico momento di sgomento li assale quando la stella scompare e, umili perché sono realmente grandi, non pensano che sia per la malvagità altrui che ciò avviene, non meritando i corrotti di Gerusalemme di vedere la stella di Dio. Ma pensano di avere demeritato di Dio loro stessi, e si esaminano con tremore e contrizione già pronta a chiedere perdono.
Ma la loro coscienza li rassicura. Anime use alla meditazione, hanno una coscienza sensibilissima, affinata da una attenzione costante, da una introspezione acuta, che ha fatto del loro interno uno specchio su cui si riflettono le più piccole larve degli avvenimenti giornalieri.
Ne hanno fatto una maestra, una voce che avverte e grida al più piccolo, non dico errore, ma sguardo all'errore, a ciò che è umano, al compiacimento di ciò che è io. Perciò, quando essi si pongono di fronte a questa maestra, a questo specchio severo e nitido, sanno che esso non mentirà. Ora li rassicura ed essi riprendono lena.
"Oh! dolce cosa sentire che nulla è in noi di contrario a Dio! Sentire che Egli guarda con compiacenza l'animo del figlio fedele e lo benedice. Da questo sentire viene aumento di fede e fiducia, e speranza, e fortezza, e pazienza. Ora è tempesta. Ma passerà, poiché Dio mi ama e sa che lo amo, e non mancherà di aiutarmi ancora". Così parlano coloro che hanno la pace che viene da una coscienza retta, che è regina di ogni loro azione.
Essi, i tre Savi, erano realmente grandi. Per virtù soprannaturali per prima cosa, per scienza per seconda cosa, per ricchezza per ultima cosa.
Ma si sentono un nulla, polvere sulla polvere della terra, rispetto al Dio altissimo, che crea i mondi con un suo sorriso e li sparge come chicchi di grano per saziare gli occhi degli angeli coi monili delle stelle.
Ma si sentono nulla rispetto al Dio altissimo, che ha creato il pianeta su cui vivono e lo ha fatto variato mettendo, Scultore infinito d'opere sconfinate, qua, con una ditata del suo pollice, una corona di dolci colline, e là un'ossatura di gioghi e di picchi, simili a vertebre della terra, di questo corpo smisurato a cui sono vene i fiumi, bacini i laghi, cuori gli oceani, veste le foreste, veli le nubi, decorazioni i ghiacciai di cristallo, gemme le turchesi e gli smeraldi, gli opali e i berilli di tutte le acque che cantano, con le selve e i venti, il grande coro di laude al loro Signore.
Ma si sentono nulla nella loro sapienza rispetto al Dio altissimo, da cui la loro sapienza viene e che ha dato loro occhi più potenti di quelle due pupille per cui vedono le cose: occhi dell'anima, che sanno leggere nelle cose la parola non scritta da mano umana, ma incisa dal pensiero di Dio. 
Ma si sentono nulla nella loro ricchezza: atomo rispetto alla ricchezza del Possessore dell'universo, che sparge metalli e gemme negli astri e pianeti e soprannaturali dovizie, inesauste dovizie, nel cuore di chi l'ama.
E, giunti davanti ad una povera casa, nella più meschina delle città di Giuda, essi non crollano il capo dicendo: "Impossibile", ma curvano la schiena, le ginocchia, e specie il cuore, e adorano. Là, dietro quel povero muro, è Dio.
Quel Dio che essi hanno sempre invocato, non osando mai, neppur lontanamente, sperare di averlo a vedere. Ma invocato per il bene di tutta l'umanità, per il "loro" bene eterno.
Oh! questo solo si auguravano. Di poterlo vedere, conoscere, possedere nella vita che non conosce più albe e tramonti!
Egli è là, dietro quel povero muro. Chissà se il suo cuore di Bambino, che è pur sempre il cuore di un Dio, non sente questi tre cuori che, proni nella polvere della via, squillano: "Santo, Santo, Santo. Benedetto il Signore Iddio nostro. Gloria a Lui nei Cieli altissimi e pace ai suoi servi. Gloria, gloria, gloria e benedizione"? Essi se lo chiedono con tremore di amore.
E per tutta la notte e la seguente mattina preparano con la preghiera più viva lo spirito alla comunione con il Dio-Bambino. 

Maria Valtorta; il Poema dell'uomo Dio